Sicurezza sul lavoro: il lavoratore non è tenuto ad indicare le norme di sicurezza violate in caso di infortunio

Il lavoratore che si sia infortunato sul luogo di lavoro deve indicare anche quali norme sulla sicurezza sono state violate dal datore?

In caso di infortunio sul lavoro, il dipendente che agisca in giudizio contro il datore per il risarcimento integrale del danno patito ha l’onere di provare il fatto costituente inadempimento e il nesso causale tra questo e il danno, ma non anche la colpa della controparte, nei cui confronti opera la presunzione di cui all’art. 1218 c.c.

Con riferimento al primo elemento è necessario considerare il contenuto dell’obbligo rispetto al quale la condotta datoriale è qualificabile come inadempimento. Posto che l’art. 2087 c.c. pone un generale obbligo di tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore, senza ulteriori specificazioni in merito alle condotte omissive e commissive destinate a sostanziarlo, l’onere gravante in capo al dipendente non potrebbe estendersi fino a comprendere anche l’individuazione delle specifiche norme di cautela violate, in special modo ove non si tratti di misure tipiche o nominati.

Cass. Civ. sez. lav., 5 aprile 2024, n. 9120

 

Licenziamento per scarso rendimento: è legittimo se costituisce notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore

Lo scarso rendimento del lavoratore può costituire il fondamento giustificativo di un licenziamento per g.m.o.?

Il licenziamento per “scarso rendimento”, secondo l’orientamento giurisprudenziale seguito dalla Corte di Cassazione, costituisce un’ipotesi di recesso per notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore.

Quest’ultimo non si obbliga al raggiungimento di un risultato, ma alla messa a disposizione del datore delle proprie energie, nei modi e nei tempi stabiliti, con la conseguenza che il mancato raggiungimento del risultato prefissato non costituisce di per sé inadempimento, non essendosi il lavoratore obbligato al compimento di un’opera o di un servizio (lavoro autonomo).

Tuttavia, nel caso in cui siano individuabili dei parametri per accertare se la prestazione sia eseguita con la diligenza e professionalità medie, proprie delle mansioni affidate al lavoratore, il discostamento dai detti parametri può costituire un indice di non esatta esecuzione della prestazione e lo scarso rendimento sarebbe caratterizzato da colpa del lavoratore. Tenuto fermo quanto sopra, occorre tenere distinte le ipotesi in cui il licenziamento sia riconducibile ad una condotta addebitale al lavoratore e costituenti forme di inadempimento rispetto alla prestazione attesa dal datore, dai casi in cui il recesso datoriale è sia riferibile a ragioni organizzative dell’impresa (che possono anche ravvisarsi in condizioni attinenti alla persona del lavoratore), riconducibili a circostanze oggettive idonee a determinare la perdita di interesse del datore alla prestazione e che siano, pertanto, estranee alla sfera volitiva del dipendente. Solo per tale seconda categoria di ipotesi potrebbe parlarsi di licenziamento per g.m.o.

Cass. Civ. sez. lav., 19 aprile 2024, n. 10640

 

Licenziamenti collettivi e adeguatezza della tutela indennitaria di tipo compensativo

Nella sentenza n. 7 la Corte costituzionale riconosce che con le norme impugnate (artt. 3, comma 1, e 10 d.lgs. 4 marzo 2015 n. 23) la precedente tutela del lavoratore contro il licenziamento illegittimo viene “sensibilmente ridimensionata a favore della tutela indennitaria di tipo compensativo” (par. 4.3.) e la stessa osservazione è contenuta nella successiva sent. n. 22, redatta dallo stesso giudice.

La sent. n. 7 nota altresì che con le pronunce successive al 2015 la stessa Corte ha proceduto ad un nuovo ampliamento “dell’area della tutela reintegratoria” (par. 4.6.).

La detta riduzione legislativa della tutela contro i licenziamenti illegittimi non sembra alla Corte contrastante con gli artt. 3,4 e 35 Cost. per le ragioni che la stessa Corte riconduce a quelle dichiarate dal legislatore già nell’art. 1 l. n. 92/2012 nonché nel preambolo della legge n. 23 del 2015 e che si sintetizzano nella finalità di incremento dell’occupazione.

Ma sull’utilità, ai fini interpretativi, delle dichiarazioni del legislatore contestuali alla legge stessa, con le quali egli intende convincere della bontà sociale del suo prodotto con argomenti politici e non tecnico-giuridici, non è il caso di dilungarsi. Circa i preamboli già in tempo non recente si è parlato di “vari espedienti della rettorica nella motivazione delle leggi” e di “preamboli sempre meno importanti” (27).

La moderata fiducia nella motivazione espressa delle leggi, mostrata da Nicola Lupo (28), è da condividere poiché la stessa motivazione, anche quando non contestuale, può informare più sull’occasio che sulla ratio legis, destinata a modificarsi col tempo soprattutto in ragione dell’esperienza applicativa.

La Corte richiama anche l’incensurabilità, nella sua sede giurisdizionale, dell’esercizio della discrezionalità politica del Parlamento (art. 28 l. 11 marzo 1953 n. 87), pur conoscendo la labilità della linea di confine tra il sindacato su questo tipo di discrezionalità ed un controllo di legittimità in cui le norme-parametro (quelle della Costituzione) non sono quasi mai  formulate per fattispecie chiuse bensì attraverso l’indicazione di scopi da raggiungere, attraverso espressioni linguistiche indeterminate e perciò affidate all’ampia discrezionalità dell’interprete, ossia ed anzitutto al legislatore ordinario (29).

Oltre all’impossibilità di sindacare la discrezionalità politica del legislatore la Corte nega l’efficacia vincolante, per i giudici nazionali, delle decisioni del Comitato europeo per i diritti sociali. Negazione generalmente condivisa ma che richiederebbe nel caso di specie una motivazione di merito più ampia quando quelle decisioni non vengano condivise, pur essendo state invocate dalla parte.,

Ancor meno persuasiva è la sent. n. 7 nella parte in cui esclude ogni contrasto con norme costituzionali quanto alla soppressione di ogni tutela reintegratoria nel caso di violazione di norme, legali o della contrattazione collettiva, sui licenziamenti collettivi.

La violazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, nell’ambito della comunità aziendale e più specificamente di una procedura concorsuale, integra la lesione di criteri di giustizia distributiva, vale a dire del principio costituzionale di eguaglianza nel diritto privato, che può essere restaurato solo con la tutela reale.

La “sede sindacale” (in caso di conciliazione) va intesa come luogo fisico ?

Cass. Civ. sez. trib., 19 aprile 2024, n. 10665 | Cass. Civ. sez. lav., 18 gennaio 2024, n. 1975

Con le ordinanze in commento emerge un contrasto interpretativo sulla nozione di sede sindacale presso la quale possono essere validamente compiuti gli atti dispositivi del lavoratore ex art. 2113, co. 4, c.c.

Nel primo caso la Suprema Corte propende per una stringente interpretazione formale che individua la sede sindacale come luogo fisico-topografico, pervenendo alla declaratoria di nullità di un verbale di conciliazione sindacale che, benché sottoscritto con l’assistenza del sindacalista prescelto dal lavoratore, era stato concluso in un luogo (fisico) diverso dalla sede sindacale.

Nel secondo caso, speculare al primo quanto alle premesse fattuali, la Cassazione sancisce che la nozione di sede sindacale non è un requisito formale bensì funzionale ad assicurare al lavoratore la consapevolezza dell’atto dispositivo che sta per compiere, ragion per cui l’elemento da valorizzare è l’assistenza effettiva prestata dal rappresentante sindacale, indipendentemente dal luogo in cui la conciliazione sia stata conclusa.