Ambito applicativo della disciplina della decadenza dall’impugnazione del licenziamento
I ricorrenti contestavano la violazione delle disposizioni di cui all’art. 2112, c.c., nonché la mancata attivazione della procedura di cambio appalto ex art. 4 CCNL di settore. Essi sostenevano che si fossero verificati due trasferimenti di ramo d’azienda, da una società ad un’altra e poi a un’altra ancora e chiedevano l’accertamento della prosecuzione dei loro rapporti di lavoro ex art. 2112, c.c., dalla prima società alle due società convenute con effetto dalla data degli intervenuti trasferimenti. In subordine, chiedevano venisse accertata la violazione da parte della prima società della c.d. “clausola sociale” contenuta nell’art. 4 CCNL di settore con conseguente condanna alla riassunzione. In via di ulteriore subordine, chiedevano che la società fosse condannata al risarcimento del danno subito in conseguenza delle condotte poste in essere in frode alle norme di cui all’art. 2112, c.c.
Si costituivano in giudizio le società convenute, eccependo preliminarmente la decadenza dall’impugnazione della mancata prosecuzione del rapporto ai sensi dell’art. 32, l. n. 183 del 2010. Eccepivano altresì la carenza di interesse ad agire dei ricorrenti e il possibile contrasto di giudicati, avendo i ricorrenti medesimi impugnato il licenziamento intimato dalla prima società, circostanza incompatibile con la richiesta di essere dichiarati contemporaneamente dipendenti delle società convenute. Nel merito, chiedevano comunque rigettarsi il ricorso, non sussistendo alcun trasferimento di ramo d’azienda.
Ambito applicativo della disciplina della decadenza dall’impugnazione del licenziamento. La disciplina di cui all’art. 32, comma 4, lett.c), l. n. 183 del 2010, opera non solo quando il lavoratore contesti la legittimità del trasferimento, invocando la permanenza del proprio rapporto in capo al cedente, ma anche nell’ipotesi inversa, nella quale l’interessato vanti il diritto, negatogli, a proseguire il rapporto presso il cessionario.
Invero, in entrambi i casi si discute dell’imputazione del rapporto in capo all’uno o all’altro datore di lavoro, e quindi assume eguale rilievo la finalità, chiaramente perseguita dal legislatore di far emergere celermente un contenzioso suscettibile di incidere sulla consistenza occupazionale del plesso aziendale, contrastando “pratiche di rallentamento dei tempi del contenzioso giudiziario che finirebbero per provocare una moltiplicazione degli effetti economici in caso di eventuale sentenza favorevole”.
Deve dunque ritenersi che l’interpretazione dell’art. 32, comma 4, lett. c), l. n. 183 del 2010, in base alla dizione letterale, non consenta di limitare l’applicabilità della disciplina della decadenza alla sola ipotesi in cui il lavoratore contesti la successione di azienda e la cessione del proprio contratto, atteso che la norma in questione “richiama l’istituto di cui all’art. 2112, c.c., pone quale dies a quo “la data del trasferimento” – termine che la disposizione legislativa riferisce esclusivamente alla successione dell’azienda – e non opera alcun distinguo, sicché deve ritenersi in essa ricompresa sia l’ipotesi in cui si contesti la cessione del contratto, sia quella in cui tale cessione sia invece rivendicata. Tale interpretazione è anche coerente con la ratio della disposizione che è quella di circoscrivere entro tempi brevi e ragionevoli il diritto del prestatore ad agire nei confronti del datore di lavoro allo scopo di assicurare certezza nei rapporti fra le parti. Se così non fosse, infatti, il supposto cessionario sarebbe esposto alle azioni giudiziarie di tutti i dipendenti del supposto cedente entro i termini di prescrizione ordinaria, con evidente irragionevole disparità di trattamento rispetto al secondo “tutelato” dal ristretto termine di decadenza”.
In senso conformeCass., sez. lav., 25 maggio 2017, n. 13179