Vaccino e obbligo (o meno) del lavoratore. Primi orientamenti
Tenuto conto della difficoltà di affermare la legittimità della scelta del datore di porre come obbligatoria la vaccinazione Covid-19, l’eventuale rifiuto del dipendente non consente la configurabilità di una causa soggettiva legittimante il licenziamento del lavoratore: l’esercizio di un diritto, infatti, non potrebbe configurare un comportamento disciplinarmente rilevante (qui iure suo utitur neminem laedit).
La mancata vaccinazione, tuttavia, potrebbe rendere obbiettivamente non utilizzabile la prestazione del lavoratore, ad esempio in contesti sanitari ove il contatto tra dipendenti e pazienti è inevitabile.
Qualora le mansioni non possano essere svolte in modalità agile (smart-working) e il dipendente non sia altrimenti impegabile in seno all’azienda, potrà prospettarsi la sospensione dal lavoro senza diritto alla retribuzione.
Opinabile sarebbe anche la legittimità di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Anche ove non operasse il divieto di recesso datoriale – attualmente operante fino al 31 marzo – la fattispecie configurarerebbe una impossibilità sopravvenuta temporanea della prestazione, con conseguente applicabilità della disciplina codicistica di cui agli artt. 1256, comma 2, e 1464 c.c., dovendosi bilanciare l’interesse del datore alla cessazione del rapporto e quello del lavoratore alla conservazione dell’occupazione.
Ulteriore alternativa potrebbe essere quella del ricorso alla CIG-Covid, tenuto conto che la “causa-Covid” include tutte le ipotesi in cui, per ragioni oggettive, non sia temporaneamente possibile avvalersi della prestazione del lavoratore, pur essendo tale impossibilità riconducibile all’esercizio di un diritto costituzionalmente garantito.