Il “superlavoro”, l’usura psico-fisica e le conseguenze
Il superlavoro: la prima pronuncia della Cassazione, 1° settembre 1997, n. 8267
Non senza una buona dose di fantasia terminologica, la giurisprudenza italiana nel volgere del passato millennio ha dato un preciso nome a questo fenomeno, battezzandolo “superlavoro”.
Facciamo riferimento alla pronuncia della Cassazione, 1° settembre 1997, n. 8267 [2], che per la prima volta [3] ha coniato questo neologismo con lo scopo di indicare lo svolgimento della prestazione lavorativa che, secondo le regole di esperienza, abbia ecceduto “la normale tollerabilità”, qualificabile come fatto illecito generatore di responsabilità contrattuale.
Si tratta di una formula “elastica” [4], aperta come vedremo alla valutazione concreta e “case by case” della condotta datoriale, che ha la sua fonte «nella violazione di obblighi di comportamento imposti da norme di fonte legale o suggeriti dalla tecnica, ma concretamente individuati» (ex plurimis, Cass. 2 settembre 2015, n. 17438; Cass. 2 luglio 2014, n. 15082; Cass. 1° giugno 2004, n. 10510) [5].
Nel caso di specie, il capo ufficio di un ente autonomo fieristico conveniva in giudizio il datore di lavoro per conseguire il risarcimento del danno biologico dovuto all’infarto subito in conseguenza della stressante attività (lavoro straordinario, feriale e festivo, anche presso la propria abitazione, per una media di circa sessanta ore settimanali) a cui si era dovuto sottoporre per fronteggiare il carico del proprio ufficio (la gestione di una importante fiera nazionale a cui partecipavano annualmente circa duemila aziende), con un organico peraltro del tutto insufficiente (14 unità).
Sia il Pretore che il Tribunale di Bari in sede di appello rigettavano le richieste del lavoratore, affermando il classico principio “volenti non fit iniuria”; più precisamente il lavoratore che, di sua iniziativa, si assoggetti al superlavoro per mantenere – nonostante la carenza di organico – l’efficienza del reparto a lui affidato compie una scelta da ascriversi esclusivamente alla sua responsabilità senza che possa esser evocata quella del datore di lavoro.
L’esistenza presso un ufficio di un carico di lavoro eccessivo – in relazione all’entità dell’organico esistente presso l’ufficio stesso – non obbliga quindi il datore di lavoro ad adeguare l’organico, essendo riservato il relativo dimensionamento esclusivamente alle sue scelte imprenditoriali.
Questi dunque i principi formulati in entrambi i gradi del giudizio di merito, che venivano tuttavia ribaltati in sede di legittimità sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2087 c.c., alla luce del cogente limite all’iniziativa economica privata costituito proprio dalla salute e dalla sicurezza umana, così come prescritto dall’art. 41 comma 2 Cost.
In ottemperanza a tale precetto, quindi, “il datore di lavoro non può pertanto esimersi dall’adottare tutte le misure necessarie – compreso l’adeguamento dell’organico – volte ad assicurare livelli competitivi di produttività senza compromissione, tuttavia, dell’integrità psicofisica dei lavoratori soggetti al suo potere organizzativo e di dimensionamento delle strutture aziendali”.
Diretto ed immediato corollario era l’affermazione secondo cui “il mancato adeguamento dell’organico che abbia determinato un eccessivo impegno di lavoro da parte del lavoratore, ovvero il mancato impedimento di un superlavoro eccedente – secondo regole di esperienza– la normale tollerabilità, con conseguente danno per la salute del lavoratore stesso, costituiscono violazione, oltre che dell’art. 41, comma 2, della Costituzione, della regola contenuta nell’art. 2087 c.c., con responsabilità di natura contrattuale”.
E ciò, si badi bene, anche nel caso in cui la prestazione lavorativa sia stata resa spontaneamente dal lavoratore, considerato non solo che tale spontaneità è comunque relativa per il contesto di subordinazione economica a cui è sottoposto il prestatore di lavoro, ma tenuto altresì conto del fatto che il datore di lavoro non può invocare quale esenzione di responsabilità l’essersi limitato a fruire di una prestazione non richiesta al lavoratore.
In concreto, anche a seguito del rinvio al giudice di merito e alla nuova pronuncia della Cassazione, 5 febbraio 2000, n. 1307, il caso si chiudeva con il riconoscimento del risarcimento del danno a favore del lavoratore (per la somma di 300.000.000 di lire) e l’accertamento del nesso eziologico tra superlavoro e infarto patito, nonostante la presenza di una pluralità di concorrenti fattori di rischio (fumo, ipertensione, vita sedentaria).
L’art. 2087 c.c., norma generale di chiusura del sistema di sicurezza sul lavoro mercé l’imposizione di un obbligo “atipico” di tutela dell’integrità psico-fisica del prestatore di lavoro, è stato in questo caso arricchito di uno specifico contenuto concreto: il dovere di impedire il superlavoro eccedente la normale tollerabilità attraverso l’obbligo di risarcire il danno alla salute ad esso eziologicamente riferibile.