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Appalti endoaziendali e divieto di intermediazione

Gli appalti c.d. “endoaziendali” sono caratterizzati dall’affidamento ad un appaltatore esterno di attività strettamente attinenti al complessivo ciclo produttivo del committente.

Il divieto d’intermediazione opera tutte le volte in cui l’appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo all’appaltatore lavoro i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto, ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo.

Occorre pertanto di volta in volta procedere ad una dettagliata analisi di tutti gli elementi che caratterizzano il rapporto instaurato tra le parti allo scopo di accertare se l’impresa appaltatrice, assumendo su di sé il rischio economico dell’impresa, operi in condizioni di reale autonomia organizzativa e gestionale rispetto all’impresa committente; se sia provvista di una propria organizzazione d’impresa; se in concreto assuma su di sé l’alea economica insita nell’attività produttiva oggetto dell’appalto; infine se i lavoratori impiegati per il raggiungimento di tali risultati siano effettivamente diretti dall’appaltatore ed agiscano alle sue dipendenze.

L’assenza di quest’ultimo elemento, quindi l’assoggettamento dei dipendenti dello pseudo-appaltatore al potere direttivo e di controllo dell’effettivo utilizzatore delle prestazioni lavorative costituisce, secondo quanto evidenziato in giurisprudenza, uno degli indici principali dell’interposizione e, quindi della non genuinità dell’appalto.

Cfr. Tribunale di Bari – Sez. Lavoro 22.10.2019

Diritti del lavoratore in caso di trasferimento del ramo d’azienda

In tema di interposizione d’opera, richiamando le Sezioni Unite della Suprema Corte (Cass. n. 2990 del 2018), nel caso in cui ne venga accertata l’illegittimità e dichiarata l’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, il mancato ripristino del rapporto medesimo ad opera del committente comporta l’obbligo di quest’ultimo di corrispondere le retribuzioni “a decorrere dalla messa in mora”.

Cfr. Cass., Sez. Lav,, 6 novembre 2019, n. 28500

Dimissioni desumibili da comportamenti omissivi

La volontà del lavoratore di recedere dal contratto può essere desunta non solo da espresse e chiare manifestazioni della medesima (oralmente o per iscritto), ma anche da  comportamenti che essa palesino in modo inequivocabile, ad esempio l’allontanamento dal posto di lavoro per diversi giorni. Laddove non sia stata prevista una forma convenzionale per le dimissioni del lavoratore, esse possono desumersi dal concorso di più elementi indiziari, logicamente indicativi della volontà di recedere dal rapporto, non escludendosi che un comportamento omissivo possa fare presumere tale intento, secondo i principi dell’affidamento. Ne consegue che anche un inadempimento delle obbligazioni contrattuali è suscettibile di essere interpretato come espressione, per facta concludentia, della volontà del dipendente di interrompere il rapporto.

Cfr. Cass. Sez. Lav., 10 ottobre 2019, n. 25583.

Conformità all’art. 36 Cost. della retribuzione stabilita dalla contrattazione collettiva : il crisma della rappresentatività non è sufficiente

Il trattamento retributivo stabilito in sede di contrattazione collettiva, dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, si presume essere proporzionale ed adeguato ai sensi dell’art. 36 Cost. Tuttavia è necessario, al fine di valutarne l’effettiva conformità al dettato costituzionale, tenere conto anche del contenuto globale del C.C.N.L. applicato, nonché delle ragioni esterne che hanno indotto le parti a prevedere una retribuzione inferiore, rispetto a quella applicata nel settore di riferimento, ed eventualmente idonee a costituirne fondamento giustificativo.

Tribunale Torino, sez. lav., 9 agosto 2019, n. 1128

In senso conforme Cass. Sez. Lav., 25 marzo 2019, n. 8299

 

Il CCNL può modificare il contenuto della retribuzione annua di cui all’ art. 2120 c.c.

l secondo comma dell’art. 2120, c.c., relativamente alla retribuzione annua  costituente la base di calcolo del TFR, dispone che essa ricomprende tutte le somme corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro (compreso l’equivalente delle prestazioni in natura), a titolo non occasionale, escluso invece quanto il lavoratore ha ricevuto a titolo di rimborso spese.

Tuttavia la medesima disposizione fa salve eventuali diverse previsioni contenute nei contratti collettivi.

Pertanto la regola generale è quella della omnicomprensività, mentre eccezioni alla stessa possono essere contemplate dalla contrattazione collettiva, autorizzata ex legge anche a prevedere, sempre ai fini del calcolo del TFR, una diversa nozione di retribuzione. Si precisa che i criteri di quantificazione di cui all’art. 2120, c.c., potranno essere derogati solo dalla normativa collettiva successiva all’entrata in vigore della novella legislativa (1982), con esclusione di eventuali richiami a norme pattizie previgenti.

Cass. Sez. Lav. 25 settembre 2019 n. 23932.

Diritto di recesso e abuso del diritto

Si è affermato che : “L’abuso del diritto non è ravvisabile nel solo fatto che una parte del contratto abbia tenuto una condotta non idonea a salvaguardare gli interessi dell’altra, quando tale condotta persegua un risultato lecito attraverso mezzi legittimi, essendo, invece, configurabile allorché il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà sono attribuiti”.

(Nel caso di specie, il giudice ha ritenuto che non vi sono elementi per concludere che il diritto di recedere sia stato esercitato per un fine diverso da quello per il quale l’ordinamento lo riconosce, vale a dire quello di non essere vincolati in perpetuo da un accordo, anche quando le condizioni di fatto siano mutate).

Tribunale La Spezia 7 agosto 2019, n. 2752

In senso conforme

Cass., sez. III 13 giugno 2019 n. 15885
Cass., sez. I 12 dicembre 2017 n. 29792

Licenziamento collettivo e lavoratori obbligatoriamente assunti

Nel bilanciamento dell’interesse del datore al ridimensionamento dell’organico, in una situazione di crisi economica, con quello dell’assunto obbligatoriamente alla conservazione del posto di lavoro, il legislatore privilegia quest’ultimo. Ne consegue che il recesso di cui all’art. 4, comma 9, l. n. 223 del 1991, esercitato nei confronti del lavoratore disabile è annullabile qualora, nel momento della cessazione del rapporto, il numero dei dipendenti rimanenti, occupati obbligatoriamente, sia inferiore alla quota di riserva prevista all’art. 3l. n. 223 del 1991.

Tale norma, infatti, mira a promuovere l’inserimento nel mondo del lavoro del disabile, evitando che in occasione di licenziamenti individuali, o collettivi, motivati da ragioni economiche, il datore possa violare le disposizioni afferenti la presenza percentuale in azienda di personale appartenente alle categorie protette, la cui assunzione sia avvenuta  conformità all’obbligo di legge.

I conferente è la circostanza del rifiuto alla ricollocazione considerato che non è possibile parlare di obbligo di repechage in ipotesi di licenziamento ex l. n. 223 del 1991.

Cass. Sez. Lav. 15 ottobre 2019, n. 26029

Nessun demansionamento con la sola modifica quantitativa delle mansioni

Non ogni modifica quantitativa delle mansioni, con riduzione delle stesse, si traduce automaticamente in una dequalificazione professionale, che invece implica una sottrazione di mansioni tale – per la sua natura e portata, per la sua incidenza sui poteri del lavoratore e sulla sua collocazione nell’ambito aziendale – da comportare un abbassamento del globale livello delle prestazioni del lavoratore con sottilizzazione delle capacità dallo stesso acquisite ed un conseguente impoverimento della sua professionalità.

Cass. Sez. Lav. 9 settembre 2019 n. 22488

Lo ius variandi in tema di mansioni dirigenziali

Lo ius variandi del datore di lavoro attualmente è collegato ad un duplice limite: il primo, la nozione di categoria (dirigente, quadro, impiegato, operaio) di fonte legale; il secondo, la nozione di inquadramento (I livello, II livello, III livello ecc.) di fonte contrattuale collettiva.

Ai sensi del nuovo testo dell’art. 2103, c.c., ferma la categoria legale, il dipendente può, dunque, essere adibito a una qualsiasi delle qualifiche previste dalla contrattazione collettiva all’interno del medesimo livello di inquadramento.

Nel caso dei contratti collettivi dei dirigenti, ove non è prevista differenziazione di inquadramento, il limite resta quello della categoria per cui il datore di lavoro può adibire il dirigente a qualunque mansione, purché di contenuto dirigenziale.

Ai fini del vaglio della legittimità del comportamento datoriale ai sensi dell’art. 2103, c.c. – nuova formulazione – nei confronti dei dirigenti cosiddetti “apicali”, è necessario fare riferimento a parametri differenti rispetto a quelli utilizzabili per gli altri lavoratori: quali, ad esempio, l’importanza strategica della scelta dell’adibizione del dirigente a mansioni inferiori, ed il rapporto fiduciario, particolarmente intenso, che lega datore e prestatore di lavoro con qualifica dirigenziale.

In senso conforme

Cass., sez. lav., 10 gennaio 2018, n. 330

CEDU: l’installazione di videocamere nascoste, all’insaputa dei dipendenti, per verificare eventuali illeciti, non lede il diritto alla riservatezza

La Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo ha dichiarato che l’installazione di videocamere nascoste all’insaputa dei dipendenti non lede il diritto alla riservatezza dei lavoratori se tale attività è preordinata a verificare eventuali atti illeciti a danno della Società.

Con la decisione del 17 ottobre 2019 la Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo, a definizione del caso López Ribalda e altri contro Spagna (giudizi nn. 1874/13 e 8567/13), ha dichiarato, con 14 voti favorevoli e 3 contrari, che, nella fattispecie esaminata, non vi è stata nessuna violazione dell’articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) della Convenzione europea del Diritti umani e, all’unanimità, che non vi è stata violazione dell’articolo 6 § 1 (diritto a un processo equo).

Il caso scrutinato dalla Corte riguardava l’installazione, da parte di una società spagnola della grande distribuzione, di un sistema di videosorveglianza segreta dei dipendenti.

Le immagini raccolte con questo sistema hanno fatto emergere che i lavoratori, come sospettato dall’azienda, rubavano merce aziendale ed hanno costituito il fondamento del licenziamento dei dipendenti stessi.

La Corte ha riscontrato, in particolare, che i tribunali spagnoli hanno attentamente bilanciato i diritti dei lavoratori – dipendenti del supermercato sospettati di furto – e quelli del datore di lavoro, connessi alla tutela del patrimonio aziendale, ed hanno effettuato un esame approfondito delle ragioni che hanno determinato la scelta di installare il sistema di videosorveglianza.

Secondo la Corte, la presenza di una ragione giustificativa meritevole di tutela da parte dell’ordinamento, come il fondato sospetto di furto da parte dei dipendenti, giustifica la mancata informativa preventiva ai dipendenti circa l’installazione della videosorveglianza, nonostante, in linea generale, la legge richieda che un simile trattamento di dati personali sia sempre accompagnato dalla relativa informativa all’interessato. Ciò a patto che la misura adottata dal datore di lavoro venga giudicata proporzionata al fine perseguito.