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Legge 104: abuso del diritto a fruire dei permessi retribuiti

Abuso del diritto a fruire dei permessi retribuiti ex art. 33, l. n. 104 del 1992. Come affermato dalla Suprema Corte in tema di abuso del diritto connesso all’utilizzo improprio del permesso, art. 33, l. n. 104 del 1992: “ove l’esercizio del diritto soggettivo non si ricolleghi alla attuazione di un potere assoluto e imprescindibile, ma presupponga un’autonomia comunque collegata alla cura di interessi, soprattutto ove si tratti – come nella specie – di interessi familiari tutelati nel contempo nell’ambito del rapporto privato e nell’ambito del rapporto con l’ente pubblico di previdenza, il non esercizio o l’esercizio secondo criteri diversi da quelli richiesti dalla natura della funzione può considerarsi abuso in ordine a quel potere pure riconosciuto dall’ordinamento. L’abuso del diritto, così inteso, può dunque avvenire sotto forme diverse, a seconda del rapporto cui esso inerisce, sicché, con riferimento al caso di specie, rileva la condotta contraria alla buona fede, o comunque lesiva della buona fede altrui, nei confronti del datore di lavoro, che in presenza di un abuso del diritto al permesso si vede privato ingiustamente della prestazione lavorativa del dipendente e sopporta comunque una lesione (la cui gravità va valutata in concreto) dell’affidamento da lui riposto nel medesimo, mentre rileva l’indebita percezione dell’indennità e lo sviamento dell’intervento assistenziale nei confronti dell’ente di previdenza erogatore del trattamento economico”.

Nel caso di specie il Giudice ha accertato il verificarsi di un abuso del diritto potestativo in quanto lo stesso è stato esercitato non per l’assistenza al familiare, bensì per attendere ad altra attività per la gran parte del tempo totale concesso, ponendosi, quindi, la condotta della ricorrente in contrasto con la finalità della norma richiamata.

Tb. Bari Sez. Lav. 30.4.2019 in senso conforme Cass. Sez. VI 21.2.2019 n° 4984

 

 

Gravidanza durante il periodo di preavviso

Non essendo la lavoratrice oggettivamente in stato di gravidanza al tempo in cui è venuta a conoscenza del recesso datoriale, dovrà escludersi la nullità del licenziamento ex art. 54 c. 5 prefato. In merito.

Cass. Civ. Sez. Lav.  n° 9268/2019

Il regime dell’onere probatorio nel licenziamento intimato in forma orale

Il lavoratore subordinato che impugni un licenziamento allegando che è stato intimato senza l’osservanza della forma prescritta ha l’onere di provare, quale fatto costitutivo della sua domanda, che la risoluzione del rapporto di lavoro è ascrivibile alla volontà del datore di lavoro, anche se manifestata con comportamenti concludenti; la mera cessazione nell’esecuzione delle prestazioni non è circostanza di per sé sola idonea a fornire tale prova.

Ove il datore di lavoro eccepisca che il rapporto si è risolto per le dimissioni del lavoratore, il giudice sarà chiamato a ricostruire i fatti con indagine rigorosa – anche avvalendosi dell’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio ex art. 421, c.p.c. – e solo nel caso perduri l’incertezza probatoria farà applicazione della regola residuale desumibile dall’art. 2697, comma 1, c.c., rigettando la domanda del lavoratore che non ha provato il fatto costitutivo della sua pretesa.

Cass. Civ. Sez. Lav. 8.2.2019 n° 3822

 

Decadenza e accertamento o costituzione del rapporto di lavoro in capo a soggetto diverso dal titolare

La domanda di costituzione del rapporto di lavoro proposta ai sensi dell’art. 29, comma 3-bis, d.lgs. n. 276 del 2003, in virtù dell’illiceità dell’appalto, non è soggetta a decadenza ai sensi dell’art. 32, comma 4 lett. d), l. n. 183 del 2010, se l’appaltatore falso datore formale – i cui atti sono da attribuire all’appaltante utilizzatore effettivo della prestazione ai sensi dell’art. 27 comma 2, d.lgs. n. 276 del 2003 (oggi art. 38, comma 2, d.lgs. n. 82 del 2015) – intimi, in adempimento di un obbligo di fonte collettiva di risolvere il rapporto per consentire l’assunzione dell’appaltatore subentrante, un licenziamento solo verbale.

Cass. Civ. Sez. Lav. ord. 11.1.2019 n° 523

 

Esclusa l’indennità sostitutiva della reintegra se il lavoratore illegittimamente licenziato è nel frattempo andato in pensione

La Suprema Corte sottolinea che, pur essendo la maturazione del diritto alla pensione (come la relativa domanda) non estintiva del rapporto di lavoro finché non vi sia un atto idoneo, essendo che il lavoratore, nel frattempo, era effettivamente andato in pensione, va esclusa dunque la possibilità di reintegra e di conseguenza l’indennità sostitutiva.

Cass. Civ. Sez. Lav. 17.4.2019 n° 10721

 

Trattamento dati personali e diritto di accesso a dati valutativi

Il diritto di accesso ai dati personali del dipendente è completo e deve considerarsi esteso anche alle valutazioni che il datore di lavoro opera sui detti dati personali.

Cass. Sez. Lav. – ordinanza 15.11.2018 n° 32533

Rito Fornero: entità dell’indennizzo risarcitorio in caso di licenziamento illegittimo

L’art.9, comma 1, d.lgs. n. 23 del 2015, non ha subito censure, non essendo stato oggetto del quesito di costituzionalità. E’ inevitabile però valutare l’incidenza della pronuncia della Corte cost. n. 194 del 2018 anche sulla sua applicazione, sia perché questa norma richiama direttamente quella dell’art.3, primo comma, per assumere la base di calcolo dell’indennizzo dovuto ai dipendenti delle piccole imprese sia perché adotta lo stesso criterio ancorato all’anzianità di servizio […] Onde evitare un’applicazione contrastante col pronunciamento della Corte costituzionale, deve ritenersi che il rinvio al “ammontare delle indennità e dell’importo previsti dall’art.3, comma 1” vada letto in riferimento a tutti i criteri risarcitori indicati dalla sentenza 194 del 2018.

Tribunale di Genova – Sez. Lavoro – ordinanza 21.11.2018

Sull’obbligo di motivazione del recesso

Obbligo di motivazione del recesso. La Suprema Corte ribadisce il principio di diritto secondo il quale il datore di lavoro ha l’obbligo di comunicare per iscritto i motivi del recesso, ma non è tenuto ad esporre specificamente tutti gli elementi di fatto e di diritto a base del provvedimento, essendo invece sufficiente che indichi la fattispecie di recesso nei suoi tratti e circostanze essenziali, così che in sede di impugnazione non possa invocare una fattispecie totalmente diversa, e, a fortiori, non è certamente tenuto a fornire, in sede di esposizione dei motivi, anche la prova degli indicati motivi.

Cass. Sez. Lav. 7.3.2109 n° 6678

 

Trasferimento d’azienda e divieto di licenziamento

Il licenziamento causato dal trasferimento d’azienda di per sé non può qualificarsi come ipotesi di nullità ma, in conformità con la lettera della legge, da interpretarsi restrittivamente, una ipotesi di annullabilità per difetto di giustificato motivo.

Cass. Sez. Lav. 21.2.2019 n° 5177

Campo di applicazione del contratto a tutele crescenti: il Tribunale di Roma apre a nuovi scenari

L’innovazione principale contenuta nel complesso di riforme operato negli anni 2014-2015 e noto come Jobs Act è rappresentata dalla modifica dell’assetto delle tutele che può ottenere il lavoratore in caso di licenziamento illegittimo.

 

Come noto, infatti, prima dell’entrata in vigore del c.d. contratto a tutele crescenti (introdotto con uno dei decreti attuativi del Jobs Act, ossia con il d.lgs. n. 23 del 2015) in caso di licenziamento illegittimo di un dipendente lo stesso poteva invocare due diversi regimi di tutela a seconda delle dimensioni aziendali.

 

Nelle aziende di minori dimensioni, ovvero prive del requisito dimensionale di cui all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori(l. 20 maggio 1970, n. 300) il dipendente – fatta eccezione per le ipotesi di licenziamento nullo, discriminatorio o ritorsivo, tutelate in ogni caso con la reintegrazione nel posto di lavoro – poteva ottenere la tutela, essenzialmente risarcitoria o indennitaria, di cui all’art. 8,l. n. 604 del 1966.

 

Nelle aziende più grandi, che raggiungono il requisito dimensionale di cui all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, il dipendente poteva, al contrario, ottenere le tutele previste dall’art. 18 medesimo le quali, dopo la modifica della norma ad opera della c.d. riforma Fornero (l. n. 92del 2012) assumono natura reintegratoria o meramente indennitaria a seconda dei profili che inficiano la legittimità del licenziamento stesso.

 

Il tema della corretta individuazione della disciplina applicabile al rapporto di lavoro è, dunque, di particolare rilevanza posto che, soprattutto prima della modifica normativa del d.lgs. n. 23 del 2015 ad opera del c.d. decreto dignità (d.l. n. 87 del 2018, conv. in l. n. 96 del 2018) e, soprattutto, dell’intervento della Corte costituzionale (Corte cost., n. 194 del 2018), la tutela offerta dal Jobs Act al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo risultava essere particolarmente depotenziata rispetto alla maggiore tutela offerta dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.

 

Prima del predetto intervento della Consulta, infatti, il lavoratore illegittimamente licenziato ed assoggettato alla disciplina del contratto a tutele crescenti aveva diritto al pagamento, da parte del datore di lavoro, di una indennità fissa e crescente pari a 2 mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, per ogni anno di anzianità di servizio, con un minimo di due ed un massimo di ventiquattro mensilità.

 

Soprattutto con riferimento ai lavoratori neo-assunti o, comunque, con un numero esiguo di anni di anzianità, si assisteva, dunque, ad un evidente l’indebolimento della tutela offerta rispetto all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.

 

Come noto, il c.d. decreto dignità ha modificato la norma limitandosi ad innalzare a 6 il numero minimo ed a 36 il numero massimo di mensilità erogabili al dipendente illegittimamente licenziato.

 

La Corte costituzionale, con l’arresto di fine 2018, ha invece fatto saltare il criterio di calcolo, fisso e crescente, delle indennità erogabili al dipendente illegittimamente licenziato ritenendo illegittimo il mero riferimento al parametro dell’anzianità di servizio per la commisurazione dell’indennizzo.

 

Da ciò deriva che, allo stato, la situazione si è fortemente modificata e, nel raffronto tra il livello di tutela offerto dal contratto a tutele crescenti e quello ottenibile azionando l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori finiscono per esserci delle situazioni maggiormente tutelate nel primo caso piuttosto che nel secondo.

 

Ad onta di ciò, resta comunque fondamentale delimitare con sufficiente certezza a quali rapporti di lavoro si applica il contratto a tutele crescenti.

 

A tal fine, l’art. 1, d.lgs. n. 23 del 2015, chiarisce che il regime di tutela nel caso di licenziamento illegittimo disciplinato dalle disposizioni del decreto stesso si applica a:

  • lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 23 del 2015, ossia, dopo il 7 marzo 2015;
  • nei casi di conversione, successiva all’entrata in vigore del presente decreto, di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato;
  • nel caso in cui il datore di lavoro, in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 23 del 2015, raggiunga il requisito occupazionale di cui all’art. 18, comma 8, e 9 dello Statuto dei lavoratori, il licenziamento dei lavoratori, anche se assunti precedentemente al 7 marzo 2015, è disciplinato dalle disposizioni del d.lgs. n. 23 del 2015.

Tribunale di Roma – Sez. Lavoro – ordinanza 6.8.2018 n° 75870